L’ARTE DI CAPIRE QUALI ERRORI CONSERVARE
Ogni volta che ci troviamo a prendere decisioni, da quelle più insignificanti a quelle che possono avere conseguenze determinanti per le nostre vite, raramente applichiamo un processo non pianificato.
La maggior parte delle nostre scelte sono l’esito di un attento studio a tavolino che, per quanto possa sembrare privo di pregiudizi, in realtà è e sarà sempre influenzato dall’esperienza passata.
A questo va aggiunto che nel momento in cui veniamo messi davanti ad una scelta tendiamo a darci immediatamente una risposta, a pretendere da noi stessi una soluzione immediata, anche inconsciamente, attingendo da quelle risorse che la nostra mente ci mette a disposizione.
Quando le nostre decisioni non generano i risultati aspettati o, al peggio, determinano esiti catastrofici, raramente mettiamo in discussione la qualità del nostro piano, piuttosto lo classifichiamo come un errore d’esecuzione concentrandoci su scadenze e casualità, tralasciando nella maggior parte dei casi la possibilità che invece si sia trattato di un errore di pianificazione.
Secondo James Reason, professore di Psicologia all’università di Manchester che negli anni ha portato enormi contributi nello studio dei fattori umani e organizzativi che contribuiscono al collasso dei sistemi complessi e affidabili, il processo di pianificazione è composto da tre elementi principali:
1. “Il database di lavoro”, nel quale conserviamo le informazioni immediatamente rilevanti per la decisione che stiamo elaborando oppure che deriviamo, in base alle esperienze passate, dalla situazione contestuale nella quale ci troviamo;
2. “Le operazioni mentali” che riguardano, invece, la selezione delle informazioni più rilevanti, la definizione degli obiettivi da raggiungere e la valutazione dei percorsi alternativi;
3. “Le strutture delle conoscenze apprese” che contribuiscono e supportano ognuna delle altre fasi, rendendo disponibili schemi di ragionamento e ricordi nei quali emergono nessi causali tra azioni e conseguenze, già esplorati in passato, con tutto il carico emotivo legato agli aspetti positivi e negativi di quelle azioni passate.
Per capire i modi e le ragioni per cui il processo di pianificazione può fallire dovremmo predisporci ad esplorare le vulnerabilità connesse a ciascun degli elementi che lo compongono. Il database di lavoro, ad esempio, difficilmente può contenere tutte le variabili che teoricamente sarebbe necessario prendere in considerazione per ogni (nuova) scelta e, tendenzialmente, saremo portati ad utilizzare quelle che si sono rivelate più utili oppure cruciali in passato, rendendoci in questo modo meno efficaci ad affrontare le novità. Allo stesso modo, anche le operazioni mentali sono fortemente influenzate dalla nostra memoria storica, rendendoci incapaci di pianificare le operazioni necessarie per fronteggiare gli eventi non prevedibili.
In buona sostanza, come è facile evincere da queste poche righe, le maggiori vulnerabilità che possono colpire il nostro processo di pianificazione sono connesse all’esperienza che abbiamo accumulato, nel senso che ci può portare a scelte dove il carattere soggettivo è dominante su quello oggettivo.
Per questo ogni volta che formuliamo una serie di ipotesi circa il nesso tra azioni e conseguenze, non dovremmo solamente recuperare le informazioni che abbiamo a sostegno del nostro piano, bensì dovremmo concentrarci su quegli elementi della nostra esperienza che contraddicono le nostre idee.
Il principale problema nel mettere in pratica questo processo logico è rappresentato dall’ eccesso di sicurezza (“overconfident”) per cui crediamo, più o meno tutti nel nostro piccolo, di essere più bravi a fare ciò che facciamo di quello che realmente siamo. Stando ai dati di un classico studio sul tema, sembra che l’88% degli automobilisti americani ritenga di avere capacità di guida superiori alla media.
L’overconfident influenza in maniera determinante la struttura delle conoscenze apprese, andando di volta in volta a sovrastimare i nostri schemi di ragionamento e quindi anche i piani che elaboriamo e che riteniamo più idonei al raggiungimento dei nostri obbiettivi, portandoci a sottovalutare eventuali falle emerse a seguito del confronto con l’esperienza passata o con altre conoscenze apprese.
Un ulteriore elemento di complicazione emerge, poi, dal fatto che spesso a pianificare non siamo da soli. Molto spesso, infatti, le operazioni appena descritte avvengono all’interno di gruppi o addirittura di intere organizzazioni, in cui, così come aumentano le chances di trovare soluzioni, aumentano anche la possibilità di generare errori di pianificazione. Anche assumendo la migliore buona fede e il totale allineamento degli interessi tra i membri del gruppo, una decisione collettiva presenta delle sfide che una decisione individuale non deve affrontare.
Se introducessimo, poi, un minimo di realismo nell’analisi, dovremmo considerare il fatto che non tutti i membri di un gruppo possano volere la stessa cosa o lavorare in perfetto accordo e trasparenza, e allora le cose si complicherebbero ulteriormente. Ogni membro del gruppo sarà maggiormente propenso a optare per le informazioni del proprio database di lavoro che possono avere ricadute maggiormente positive per sé e scartare quelle con potenziali ricadute negative.
Nell’ambito delle organizzazioni, soprattutto se particolarmente strutturate, le informazioni ed i processi decisionali devono affrontare un ulteriore scoglio, la trasmissione delle informazioni. Che possono essere trasmesse in maniera distorta, ai livelli superiori, quando tale distorsione va a favore o riduce le conseguenze negative nei confronti di chi le trasmette.
Nel senso opposto di questi casi vi è il fenomeno del “groupthink”, in cui i singoli componenti si sentono talmente coinvolti in un gruppo coeso, chiuso e caratterizzato da una forte entità, tale da stravolgere il loro pensiero.
Secondo lo psicologo sociale Irving Janis questo fenomeno non si tratterebbe di un atteggiamento conformistico, ma di una forma patologica in “virtù” della quale tutte le informazioni, le obbiezioni, le controdeduzioni e le alternative che potrebbero mettere in dubbio la bontà della decisione del gruppo, vengono sacrificate in favore dei valori di coesione e unità del gruppo stesso.
Alla luce di tutto ciò, la pianificazione è probabilmente la fase più delicata del processo decisionale e nella quale si può incorrere in numerose criticità che, per la maggior parte, sono la conseguenza naturale dei nostri processi cognitivi e della nostra straordinaria capacità di gestire la complessità e di navigare in un modo estremamente complicato.
Nonostante non esista un vaccino per questo tipo di errori, dovremmo impegnarci per osservare situazioni familiari con occhi nuovi, al fine di raggiungere soluzioni inedite a problemi consolidati, se specialmente prendiamo decisioni in autonomia; al contrario, operando in gruppo, anche se le criticità possono essere amplificate, la diversità culturale, di status e di esperienza può rappresentare un antidoto efficace all’eccessiva sicurezza e alla tendenza alla ricerca della conferma.
Nella speranza di avervi dato spunti di riflessione, vi lascio una citazione di Scott Adams, vi saluto e vi dò come sempre appuntamento alla prossima settimana.
“La creatività sta nel concedersi di commettere errori. L’arte sta nel saper quali conservare”.
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